All’Angelus si riflette sulla parabola contenuta nel vangelo di Luca 18,9-14, che vede un fariseo e un pubblicano salire al tempio per pregare, ma in maniera differente, con diverso stato d’animo.
Il primo è un uomo di fede, e il secondo un peccatore. Ma occorre meditare sul fatto “che la parabola è compresa tra due movimenti, espressi da due verbi: salire e scendere”. Nella Bibbia si legge di molti che salgono, al tempio, al monte, come Abramo per il sacrificio, Mosè per ricevere le Tavole, Gesù stesso quando viene trasfigurato. “Salire, perciò, esprime il bisogno del cuore di staccarsi da una vita piatta per andare incontro al Signore; di elevarsi dalle pianure del nostro io per salire verso Dio”. Quello che accade quando preghiamo.
Per poter salire a Dio però, osserva il Pontefice, dobbiamo prima scendere, “dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore, che ci donano uno sguardo onesto sulle nostre fragilità e le nostre povertà interiori. Nell’umiltà, infatti, diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che realmente siamo, i limiti e le ferite, i peccati, le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca, ci rialzi”. Questa è la differenza tra i due protagonisti della parabola. Mentre il peccatore non ha il coraggio di avvicinarsi, si vergogna, il fariseo con superbia pensa tra sé di essere migliore di lui. E così si presenta al Signore.
Lo stesso facciamo noi quando ci sentiamo migliori di altri, “senza accorgerti, adori il tuo io e cancelli il tuo Dio. È un ruotare intorno a se stessi. Questa è la preghiera senza umiltà“. Non dobbiamo essere sempre al centro, autoincensarsi poiché “dove c’è troppo io, c’è poco Dio”. Pensiamo di essere nel giusto, di essere più bravi, e disprezziamo gli altri. Dobbiamo invece avere l’umiltà di capire che siamo tutti peccatori in cerca di perdono.